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INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO - Il bel cinema - Il bel cinema

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Indy è sempre lo stesso, siamo noi a essere cambiati. A quindici anni di distanza dal tanto maltrattato e vituperato quarto capitolo e a trentaquattro anni dal terzo – magnifico – film della saga, Harrison Ford torna nuovamente a indossare l’inconfondibile giacca di pelle e il leggendario cappello Fedora di Indiana Jones, pronto a far schioccare la frusta per un’ultima volta. Dietro la macchina da presa, al posto di Steven Spielberg, lo storico regista di tutti i film con protagonista il celebre e iconico archeologo, troviamo James Mangold, autore anche della sceneggiatura assieme a David Koepp e ai fratelli Butterworth. Da quando si è avuta notizia della lavorazione di un nuovo Indiana Jones in tanti hanno esternato malumore e diffidenza a riguardo, con tanto di prevedibili e telefonati commenti ironici in merito all’età avanzata di Harrison Ford (quasi 81 anni, splendidamente portati). I dubbi erano leciti, non tanto e non solo per l’età anagrafica di Ford, che otto anni fa aveva riportato in scena Han Solo, un altro dei suoi celeberrimi personaggi, tra i protagonisti dei primi Star Wars, ma per il fatto che Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, il tentativo precedente di riportare in auge le avventure dell’archeologo più famoso nella storia del cinema, era fallito miseramente, non reggendo il confronto con la trilogia realizzata tra l’inizio e la fine degli anni ‘80. Eppure Mangold, malgrado lo scetticismo e il sarcasmo generale, è riuscito a far rivivere lo spirito del primo Indiana Jones e a riportarci alle atmosfere dei primi tre capitoli. In Indiana Jones e il quadrante del destino c’è tutto l’universo che abbiamo imparato a conoscere e ad amare nei film precedenti, dai nemici di sempre, gli odiati nazisti, agli insetti e animali ostili e minacciosi, passando per i combattimenti, le sparatorie e gli inseguimenti a rotta di collo. Senza dimenticare i classici litigi e battibecchi tra Indy e la coprotagonista femminile, mirabilmente interpretata da una volitiva e brillante Phoebe Waller-Bridge, l’attrice e ideatrice della serie TV Fleabag, nel ruolo della figlioccia (anziché dell’ennesima nuova fiamma) dell’avventuriero. In questa nuova e travolgente avventura dal ritmo indiavolato ambientata in più continenti ritroviamo un vecchio amico del professor Jones, l’egiziano Sallah, già visto nel primo e nel terzo film della saga, interpretato nuovamente da John Rhys-Davies (famoso anche per il ruolo del nano Gimli nella Trilogia dell’Anello di Peter Jackson) mentre l’idea di inserire tra i nuovi personaggi Teddy, un giovane ragazzo cresciuto per strada sveglio e impertinente, è ripresa direttamente da Indiana Jones e il tempio maledetto. Nel prologo concitato e adrenalinico ambientato in Germania nel 1944, col volto di Harrison Ford ringiovanito – con uno straniante e fastidioso effetto play station – tramite il ricorso a Fran (Face re-aging network), una nuova intelligenza artificiale ideata appositamente dalla Disney, Indiana Jones e il collega e amico Basil Shaw sono a bordo di un treno carico di nazisti e di reperti, tra cui l’Antykytera, un artefatto inventato da Archimede in grado di individuare varchi temporali. Dopo una fuga rocambolesca l’azione si sposta un quarto di secolo in avanti, nella caotica New York del 1969, alle prese con una grande parata per festeggiare l’allunaggio e con le manifestazioni di protesta contro la guerra del Vietnam. James Mangold ci mostra subito in primo piano il corpo e il volto di un anziano e malconcio professor Jones, svegliatosi di soprassalto a causa della musica assordante proveniente dall’appartamento di un vicino e in procinto di affrontare il suo ultimo giorno d’insegnamento prima di una pensione che sembra solo acuire il suo disagio e malumore, dovuto principalmente alla richiesta di divorzio da parte di Marion. È così che entra in scena il maturo, provato e malinconico professor Jones, dopo l’Indy ancora giovane e nel pieno delle forze del prologo. Nel 1969 è un uomo intristito e sconfitto dalla vita, che negli ultimi anni gli ha procurato solo dolori, non ama il tempo presente, è stranito e infastidito dalla febbre dell’allunaggio che, escluso lui, sembra aver contagiato tutti. Il messaggio appare chiaro e cristallino fin da subito: il quinto capitolo di Indiana Jones rifugge la nostra contemporaneità esattamente come il protagonista rifiuta la sua. Mangold e i suoi collaboratori non mirano a fare nuovi proseliti e a conquistare le nuove generazioni che Indiana Jones lo conoscono solo per sentito dire o al limite per averne visto le gesta distrattamente su qualche piattaforma. Il regista, nel ricevere il testimone da Spielberg, un’eredità non da poco, abbraccia in pieno l’ambientazione rétro e i toni brillanti tipici delle avventure del celebre archeologo, che potevano sembrare fuori tempo massimo già nei primi anni ‘80 (figurarsi adesso, nell’era dei cinecomics). Come molti sanno fu George Lucas, reduce dal successo planetario del primo Star Wars, ad avere l’idea di portare sul grande schermo un b-movie di puro intrattenimento sulle gesta di un avventuriero inserite in un contesto che si rifaceva e omaggiava i fumetti e i serial d’avventura degli anni ‘30 e ‘40. Ai tempi la riuscita di un’operazione del genere non era certo scontata e probabilmente furono diversi i fattori fortunati a decretarne l’immediato successo, compresa la felice intuizione di affidarne la regia a Spielberg, le musiche a John Williams e – non ultimo – il ruolo da protagonista a Ford dopo la rinuncia (decisiva e propizia) da parte di Tom Selleck impegnato con le riprese del serial Magnum, P.I. A pensarci bene, a dar retta ai detrattori incalliti del quinto capitolo della saga, fermamente convinti che si tratti di un film fuori target, ovvero senza un pubblico di riferimento e quindi destinato a un fallimento annunciato, non avremmo mai avuto al cinema un personaggio come lndiana Jones, già anacronistico e fuori moda all’inizio degli anni ‘80, dove a imperversare e a fare le fortune dei produttori erano le space opera ambientate in una galassia lontana lontana e gli incontri ravvicinati del terzo tipo. Indy se n’è sempre infischiato delle mode del momento, proiettato da sempre, per passione e professione, indietro nel tempo, nello studio della storia, intento a girare il mondo per scovare reperti e manufatti delle civiltà antiche che dovrebbero stare in un museo. James Mangold cavalca e asseconda l’indole romantica e lo spirito rétro del personaggio, limita per quanto possibile la computer grafica e costruisce un’avventura senza tempo, fuori dal tempo e attraverso il tempo, traendo forza e spessore da quelli che sulla carta sarebbero potuti essere i punti deboli, ovvero il decadimento fisico, con annessi acciacchi e dolori, del protagonista. Indiana Jones e il quadrante del destino ci regala una chiusa ispirata, accorata e commovente che se ne frega del cinismo imperante e mette a nudo l’anziano e stropicciato studioso e archeologo, appesantito dagli anni e dalle tante ferite e cicatrici impresse sul suo corpo. Un film, quello di Mangold, che richiede e pretende dal pubblico, come tutti i capitoli che lo hanno preceduto, una sana, indispensabile e abbondante dose di sospensione dell’incredulità che di questi tempi, purtroppo, sembra essere concessa solo ai supereroi dei cinecomics. Indiana Jones in fondo è rimasto sempre lo stesso, poco importa abbia quaranta o ottant’anni. È il pubblico a essere cambiato drasticamente, non solo quello più giovane ma anche quello cresciuto guardando con entusiasmo le sue avventure e che adesso non riesce più a crederci ed emozionarsi davanti a un eroe acciaccato, fragile e umanissimo.

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